Il progettino

Voi il post e io le foto.

2005-05-03

Fuori dal finestrino non si vedeva che nero



Un inedito di al3sim

Fuori dal finestrino non si vedeva che nero. Ogni tanto un rettangolo giallo di una finestra di una qualche casa lontana scivolava rapidamente con un guizzo sul vetro. Potrei essere benissimo in qualsiasi parte del mondo, pensai, ovunque. E invece no: intorno a me le lamiere verdine della littorina dalle luci fioche da pochi watt, i sedili ri-tappezzati da qualche anno per il restyling delle ferrovie statali, il colore giallo canarino del vano di ingresso e discesa dell’unico vagone componente il convoglio, mi riportarono schifosamente in quel ronzio di ferro su ferro sotto i sedili.
Nel piccolo anfratto tra un poggiatesta e l’altro, di fronte a me, intravidi il volto di una donna. La guardai per un attimo, non certo per una qualche morbosa curiosità, ma più che altro per l’inerzia e per la noia del viaggio di ritorno da Venezia, dopo una stancante giornata di studio. Poco dopo stavo già guardando le macchie di difficile classificazione sui sedili vuoti al mio fianco e la curiosa scritta sotto al finestrino lercio che, per mano di qualche anonimo passeggero, si era trasformata da pericoloso sporgersi in pericolo** **orge***.
Sorrisi piegando gli angoli della bocca all’insù, come mi avevano insegnato da piccolo, e sentii un piccolo clic dentro di me, appena dietro la nuca, come se qualche animale in agguato nel suo nascondiglio avesse catturato la preda che da tempo aspettava con pazienza. Sentii anche la pelle crespa di brivido, in allerta. Mi guardai intorno cercando qualcuno, qualcosa, e ritornai a guardare la donna nella fessura tra i sedili, questa volta con maggiore attenzione rispetto a prima. Di nuovo onde su tutta la superficie della pelle, come il cane della mia ragazza che, quando vede o solamente fiuta un altro maschio, increspa tutto il pelo sulla schiena in vista del pericolo. Allora compresi, leggendo i lineamenti di quel volto sconosciuto, cosa fosse a provocare in me quella spiacevole sensazione di disagio e stupore, quella stessa impressione di spaesamento che si prova cercando al buio un mobile in un posto, con la sicurezza derivante dall’abitudine di anni, dimenticandoci che lo abbiamo spostato il pomeriggio stesso in un’altra posizione della stessa stanza. Ecco: quella donna era fuori posto, nel tempo, pensai. Non avrebbe dovuto essere lì seduta tranquillamente a parlare con l’amica che le stava a fianco; non avrebbe potuto essere lì, perché era morta tempo fa e io lo sapevo che era già passato il suo tempo e che in quel momento, alle diciannove e venticinque dell’undici febbraio del duemilacinque, lei era totalmente fuori luogo, perché quella era mia zia, la sorella di mia madre, morta da più di dieci anni, per colpa di una cosa che da dentro l’aveva divorata fino a toglierle prima tutta la femminilità e poi la vita.
La somiglianza era impressionante: stesso taglio di capelli, le stesse rughe leggere che partivano dai bordi della bocca fino alle narici, la stessa sfumatura nel colore dell’iride, (spaventosamente) lo stesso modo di sorridere, il medesimo gusto nel truccarsi il viso, e poi la voce. Sembrava davvero mia zia e sembrava anche felice, come quei venerdì quando la sera ci portava, io e i miei fratelli, a mangiare la pizza con la Uno che aveva comprato da poco.
Così, quella sera in quel vagone, davanti a quella donna, non fui più sicuro che fosse l’undici febbraio del duemilacinque né, tanto meno, fui più sicuro di nient’altro da quel momento in poi.
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