Il progettino

Voi il post e io le foto.

2005-05-03

Lacrime di rugiada



Un inedito della Flo

Da troppe albe
Il mio viso è percorso
Da lacrime che sanno di sconfitte, di lotte amare
Di ricordi che mi tengono legata al passato
Mentre il sole sorge
In questo cielo che sa di dolore represso
Di troppi no che insidieranno i miei giorni futuri
Resto ferma sul mio cammino
Mentre venti di vittoria
Ancora soffiano lontani
Come un petalo di rosa
Bagnato da delicate goccie di rugiada
Sul mio viso queste lacrime
Stanno lasciando il segno
Poi mi accorgo che non posso più restare ferma e inerme
Persa nei miei mondi
Per rincorrere quei venti che mi daranno gloria
L'ansia cresce e inizio a correre
Non guardo indietro
A testa alta verso la meta
Questa folle corsa mi toglie il respiro
Ma la mia rosa mi da forza
Fragile rappresenta il mio passato
I miei giorni bui
Fragile ha trovato forza
Di queste goccie di rugiada, della sue lacrime
La mia rosa ora vive
Pronta alla rivalsa...

77: Le gambe delle donne



Un inedito di Criscia.

A me le donne piacciono troppo, soprattutto le loro gambe, c’è poco da fare. Poi, con la scusa del lavoro, grazie al quale viaggio parecchio, ne conosco veramente tante e di vari paesi e culture differenti. E la cosa mi eccita ancora di più. Per carità, non è che vorrò continuare tutta la vita così, e sono sicuro che prima o poi troverò quella giusta, il mio angelo del focolare per intenderci, ma adesso non ne avrei comunque il tempo per coccolarne una solamente e dedicarmi a lei e basta. I giorni che passo nella mia città, in Italia, sono assai pochi, e quale donna sarebbe contenta di vedere il proprio uomo così poco? Almeno mi giustifico pensando a questo. E nel frattempo mi godo i miei anni migliori divertendomi il più possibile. E come non divertirsi quando si ha davanti la mia giapponesina preferita? Naoko si chiama. E’ piccolina, come tutte le giapponesi del resto, ma per fortuna non ha le gambe storte come la maggior parte di loro, il seno invece è decisamente di dimensioni ridotte; questo sì che rientra nei perfetti canoni giapponesi. Ma Naoko è speciale. Non parlo di come fa l’amore, di questo potrei parlarvi per ore, ma me lo tengo per me. Alla fine non sono mica un uomo da bar. Lei mi piace per quel sorriso sbarazzino che ha. Pur avendo 26 anni, sembra ne abbia 18 e ama vestirsi con quanti più colori possibili. Anche la prima volta che entrai in camera sua rimasi sorpreso; è piena di dipinti coloratissimi fatti da lei, le tende sono azzurro cielo, il copriletto è giallo, tiene poi una libreria in cui i libri sono divisi secondo il colore delle copertine. E poi quel suo odore inconfondibile di muschio bianco che si sente appena il mio viso si appoggia sui suoi cuscini. Tempo fa mi è anche venuta a trovare qui in Italia e siamo stati davvero bene.
Poi ci sarebbe da raccontare di Sarah, una bellissima tedesca di 24 anni. Oppure potrei parlare di Ester, una francesina niente male, anzi una figa a dire il vero, di quelle che ti giri per la strada per guardarle il culo e le gambe perfette. Invece vi parlerò di Giovanna, un’italo-brasiliana. Sua madre è di Pavia e suo padre brasiliano, per l’appunto. L’ho conosciuta in Francia, dove era ospite di alcuni amici per un breve periodo. E’ una ragazza veramente piena di soldi, nullafacente in quel periodo, e stava girando l’Europa in lungo e in largo. Abbiamo passato una settimana di autentica passione. La ragazza ci sapeva fare, come si suol dire. Sono stato così bene che, finito il lavoro lì a Parigi, le avevo proposto di venire un po’ con me in Italia. E la cosa era funzionata davvero. Avevo quasi l’impressione di aver trovato una ragazza speciale, con la quale stare veramente bene, non sono dal punto di vista fisico. Mio difetto, comunque. Spesso, annebbiato dai piaceri fisici, la donna che mi capita vicino mi sembra la migliore del mondo. In questo noi maschi siamo fessi assai. Ora vi racconto il resto: dopo pochi giorni la mia Giovanna se ne era tornata nel suo amato Brasile. Il saluto era stato un momento triste per entrambi, lei era in lacrime, anche io avevo un nodo alla gola e questo, ancora di più, mi aveva fatto credere di essere davvero affezionato a quella ragazza. Così a Natale avevo deciso di andare da lei per un po’. Conoscere il suo mondo e i suoi amici era un passo importante da fare. Già dai primi giorni la situazione non si era presentata così rose e fiori come immaginavo, non ero sereno come avrei voluto. Lei era strana, assente, quasi antipatica nel suo ambiente. I suoi amici li sopportavo ancora meno. Una massa di cretini, figli di papà, con case con piscina, genitori assenti e alcool dalla mattina alla sera. Aveva poi deciso di portarmi alcuni giorni da una sua amica. La situazione non era diversa: la casa era enorme, bellissima, con tutti i confort possibili, c’era un via vai di amici dalla mattina alla sera e io non ero a mio agio fra quelle persone. Giovanna mi filava poco, anzi, tendeva a troieggiare parecchio con chi le capitava vicino, poi era sempre con un bicchiere di qualcosa in mano e girava per la casa ridendo e starnazzando come una gallina. Quando ci si mettono le donne non sono poi tanto diverse dagli animali come vorrebbero farci credere. Un paio di volte avevo provato a prenderle il bicchiere dalle mani, e in tutta risposta avevo avuto una sua risata e una battuta del tipo: “che male c’è? Qui ci divertiamo così. Lasciati andare e divertiti”. Dentro di me pensavo che se fossi andato in un bordello non sarebbe stato poi tanto diverso. Cominciavo a mostrare segni d’insofferenza e fastidio. Però una sera, alzatomi dal letto per andare a bere qualcosa, avevo visto Giovanna addormentata sul divano. Mi sono così avvicinato per vedere da vicino le sue condizioni. La casa era un vero bordello. Una volta accostatomi al suo viso avevo sentito un gran tanfo di vino provenire dalla sua bocca. Il suo alito era pessimo. E poi, a dire il vero, vista così da vicino, in una postura più simile a quella di un rospo che di una donna, e con la bocca mezza aperta, non mi sembrava poi così bella come pensavo. All’improvviso non ci ho visto più e ho attivato il piano dell’ultimo minuto: la vendetta servita fredda. Mi sono guardato un attimo intorno e poi ho preso la mia decisione. L’ho presa tra le braccia e, delicatamente e con cura, l’ho adagiata nella cuccia del cane. Non c’era problema, la cuccia era abbastanza grande. Ci stava perfettamente. Fatto questo ho preso le mie cose e mi sono allontanato da quella casa. A mai più, Giovanna!

Angel Milk






Un inedito di VinSaint

Il latte si raffredda.

Eccola quella mattinata in cui non sai come chiedere aiuto, quando sei
riverso con la testa sulla tastiera e stranamente guardi il mignolo della
destra che non si abbassa mai perché non hai mai imparato a usare tutte le
dita, anche se qualcuno ha sempre detto che sei velocissimo, magari ne usi
tre o quattro di dita in tutto. E fai questo pensiero, per non tornare al
sogno che non è un incubo, ma il solito non luogo in cui succedono le cose
irreali della mente, in cui trovi qualcuno di inaspettato, in cui non esiste
la solitudine e una postale diventa professoressa di lingue, mentre un
pensiero ti ha assalito appena sveglio e sei rimasto incollato alle lenzuola
seduto sul bordo del letto, come se volessi riprendere a vomitare l’anima,
invece no. “Saranno nella stessa città entrambi, per una settimana”. E tu
sarai sui libri di scuola, non capendoci un ca...o perché vorresti essere
loro e non puoi. Il latte bianco ha smesso di fumare alla tua sinistra, non
lo guardi nemmeno, pensi solo al dolore lancinante che stai per provare, un
ennesimo dolore del cuore. Hai conosciuto l’Amore.

Rabbit in your headlights



Di tanto in tanto chiedo alle persone come vivono la consapevolezza della propria nullità. Tutti mi rispondono serenamente, chi più, chi meno, facendo un’espressione come se avessi scoperto l’acqua calda. Loro lo sapevano già, prima di me.
Loro sapevano della propria inconsistenza e, cosa che mi dà veramente sui nervi, sapevano già della mia.
Com’è possibile mandar giù un simile boccone?


Post di Chinaski 77.

Phoenix



Un post inedito di Alja - il mio commento fotografico.

Buio fitto nella stanza, le finestre aperte a lasciar entrare l’aria umida e salmastra che gonfia i capelli e si appiccica alla pelle. I rumori di una città ignota si mischiano alla musica di Philip Glass che esce fragorosa e a basso volume dallo stereo- parole in un dialetto incomprensibile e risate di ubriachi si fermano per un istante nello spazio vuoto, si posano appena sui libri accatastati sul tavolo e poi volano via come se niente potesse fermarle, nemmeno quest’aria pesante e calda. Le dita sfiorano le venature del legno e disegnano forme sconosciute- cercando di immaginare altre mani sullo stesso tavolo, altre sagome illogiche; i piedi nudi accarezzano la fresca compostezza del pavimento di marmo liscio e senza imperfezioni, cercando qualcosa che interrompa la calma di quella superficie senza scabrezze. Accanto alle mani mobili, una conchiglia bianca e scanalata che risalta nell’oscurità- carica di cenere e mozziconi invece che di una perla; una tazza blu alta e ancora tiepida al tatto. Volute di fumo salgono verso il soffitto seguendo percorsi prestabiliti a ritmo di musica; a tratti, prorompente, l’odore del mare che si insinua fra le case solo qualche strada più in là. Attesa trepidante di passi lievi nella via e rumore di chiave che gira nella toppa- attesa spasmodica di qualcosa di impreciso e indefinito come i capelli che sfuggono al nodo in cui sono raccolto e si disperdono nell’aria della notte.
Non so chi sono né cosa ci faccio qui- non so cosa sono diventata in questo tempo minuscolo e dilatato di insonnia e languore. Sono rinata all’improvviso dopo una piccola morte senza traumi- non conosco ancora la mia forma, la linea che mi disegna nuova fiammante: sono un organismo in divenire, un torso appena sbozzato. Ho dimenticato il mio passato, le mie idee precedenti, le sicurezze avventizie- ho spento la luce al neon che illuminava le mie pene e le mie gioie. Sono bruciata e le mie ceneri sono davanti agli occhi, nella conchiglia bianca sul tavolo- mi godo quest’aria nuova nella notte calda come se fosse la prima aria possibile nella prima notte del mondo. Inalo strascichi di parole altrui e note e sensazioni neonate e non mi chiedo cosa sarà con il solito cruccio, con la solita preoccupazione: adesso, l’importante è che sia.

Una foto per Pasta mista.

Ciò che sei nel tempo che hai



Commento fotografico al post di Mr. White

E' possibile concentrare tutta una vita in un solo istante? Concentrarla come il punto immateriale in cui risiedeva - compresso, nascosto - tutto l'universo prima del big-bang? Se fosse possibile, allora in quel momento sarebbe condensato tutto il potenziale di una persona. O - chissà - di tutte le persone.
Elena ha 21 anni, una collezione di fumetti giaponesi, un figlio di undici mesi, un gatto nero e un mutuo; pensa esattamente queste parole

"Qualcosa ci trascina via."

quando scopre che il padre di suo figlio - nuova etichetta da attaccare e staccare con il velcro su un ex-amico, ex-amante, ex-compagno, neo-bastardo - se n'è andato dal loro castello, appartamento in subaffitto sopra una ricevitoria in periferia. Dov'è la sicurezza, dov'è il controllo, quali sono i punti fissi a cui ancorare una qualsiasi parvenza di sanità? In quel momento si sente spezzata, sola non solo in quanto isolata dagli altri, ma in quanto separata dai propri singoli frammenti.

"La mia anima è un popolo nomade e diviso, disperso in una terra desolata."

Due mesi dopo, suo figlio piange, nella culla. E' un pianto sommesso, tranquillo, come una specie di protesta ragionata. Sorprendente quanto un pannolino bagnato faccia sembrare ovvio e inutile qualsiasi altro ragionamento più elevato. Elena lo cambia, con gesti misurati che sanno d'abitudine. Sei anni prima, su di un banco di liceo, pensa che la questione sollevata da Hume sulla causalità fosse davvero importante; quattro ore più tardi, di fronte al suo ragazzo che l'abbraccia per la prima volta, la sua mente si fa spoglia di ogni pretesa, e diventa un caotico luna-park di sensazioni al neon. Impossibile e irrelevante registrarle. Ma.

"Cercare di non perdere questo istante è come contare gli uccelli di uno stormo guardandolo."

E' come non coglierne il senso. Undici anni più tardi, le torna in mente questa frase. Ad una fermata d'autobus, fissa un vecchio manifesto di un concerto già dimenticato. La cover-band aveva suonato quella canzone, che diventa la sua insperata madeleine proustiana: una stupida canzone da primo amore le riaccende quel luna park abbandonato. Poi, a cascata, altri pensieri: quel tempo è perduto? Era questa la sensazione di già vissuto che Proust anelava nella Recherche? Vivere ancora, rivivere... le madeleine... e ne "La donna che visse due volte", il personaggio di Kim Novak, non si chiama proprio Madeleine? Dove si trova il limite tra ciò che ho vissuto, e ciò che vivrò?

"Se fossi il personaggio di un libro, cosa potrei capire delle pagine da cui prendo vita?"

Se si dovesse condensare tutta la vita di Elena in un singolo istante, bisognerebbe scegliere un afoso venerdì pomeriggio estivo. Elena è in vacanza, seduta sulla veranda di casa, si sta mettendo lo smalto alle unghie dei piedi. Ha quasi finito; il colore è un bel rosso leggermente tendente al carmine, ma luccicante. Suo figlio arriva trotterellando, brandendo un bastone trovato in giardino come un'immaginaria spada. Il bastone urta il tavolino, la boccetta di smalto oscilla, vola - in un tempo infinito - lungo le linee dettate dalla forza di gravità. Sul pavimento, si spacca. Tra i frammenti di vetro, lo smalto si allarga, lentamente, viscosamente. Il primo istinto di Elena è quello di prendere in braccio suo figlio, perchè non si tagli con le schegge sul pavimento. Poi rimane a fissare la macchia che si allarga.

Al centro, la macchia è più densa, mentre verso la periferia gli schizzi sono più sottili, complessi, intricati. Allo stesso modo, all'alba dei tempi, il big-bang da un punto denso, si è aperto e allargandosi ha dato via al tutto. E Elena e suo figlio, e la casa, e lo smalto, e Hume e il principio di causalità, e Proust e i suoi biscotti inzuppati di tè, e i gatti neri e i mutui, e i padri che se ne vanno, cosa sono? Semplici schizzi di un incidente primevo? Ma la macchia non si allarga per goccie. Si allarga per onde, lente, progressive. Non siamo il semplice risultato di un big-bang; non siamo goccie. Non siamo separati dal big-bang. Siamo il big-bang.

"Onde. Siamo come onde. Continue. Collegate. Siamo confini che si allargano."

Elena posa suo figlio, con uno sbuffo, lasciandolo tornare in giardino. E rimane, solo per qualche altro attimo, a fissare lo smalto che si allarga sul pavimento.


"The habit of looking to the future and thinking that the whole meaning of the present lies in what it will bring forth is a pernicious one. There can be no value in the whole unless there is value in the parts. Life is not to be conceived on the analogy of a melodrama in which the hero and heroine go through incredible misfortunes for which they are compensated by a happy ending. I live and have my day, my son succeeds me and has his day, his son in turn succeeds him. What is there in all this to make a tragedy about?"

Bertrand Russel, "The Conquest of Happiness"

Traiettorie



Un inedito della Scribacchina

Concentrata davanti al thé alla menta, in quel minuto del pomeriggio in cui tutto è sospeso e poi lentamente si avvia il tramonto, ho sentito il bisogno di offrirti qualcosa. Ho steso le mie braccia davanti alla finestra aperta, da dove scompariva lentamente un odore di bruciato. Fuori, i gabbiani mi guardavano appoggiati sugli alti camini dei terrazzi condominiali. Uno sparo lontano, forse un botto rimasto di Natale, e sono decollati: io ho scosso le mie mani, le ho lanciate. Morbide, senza unghie, con i soli polpastrelli carichi di un’urgenza presa nella mia pelle, vanno verso di te.
Campagne sterminate, specchi d’acqua di pozzanghere addormentate. Il cielo è così fresco, questa sera. Intorno a me c’è una vaga nebulosa rosa e viola di carezze, un abbracciarsi a distanza, parole che vanno e vengono a velocità superiore alla mia: più stanno vicine a terra più s’infiammano, un lento ribollire di promesse e desideri che va e viene cullato dal sole. Nel giallo dei territori intermedi si sbriciolano i muri di dure gelosie, aggettivi ed epiteti che girano lasciando una scia di rancore, ed ogni tanto un grido bianco squarcia il nastro mutevole del tramonto.
Il puro cielo blu. Un bacio vola lento e sicuro come un albatros, lasciandosi dietro parole sussurrate, leggere come piume. Sotto, le luci rosse fisse delle torri oggi mute, senza nemmeno un temporale estivo nel quale caricarsi e brillare come gioielli. Davanti a noi, il cuore ripetuto all’infinito. Leggera, sfilacciandomi, vado verso di te.

Inarts inroig



Da Concetta Brambilla

In fretta vi racconto solo che sono strani giorni,
pieni e vuoti allo stesso tempo di un sacco di cose.
Si può essere vuoti di un sacco di cose?
Meglio vuoti di un sacco di cose che pieni di niente.

Fuori dal finestrino non si vedeva che nero



Un inedito di al3sim

Fuori dal finestrino non si vedeva che nero. Ogni tanto un rettangolo giallo di una finestra di una qualche casa lontana scivolava rapidamente con un guizzo sul vetro. Potrei essere benissimo in qualsiasi parte del mondo, pensai, ovunque. E invece no: intorno a me le lamiere verdine della littorina dalle luci fioche da pochi watt, i sedili ri-tappezzati da qualche anno per il restyling delle ferrovie statali, il colore giallo canarino del vano di ingresso e discesa dell’unico vagone componente il convoglio, mi riportarono schifosamente in quel ronzio di ferro su ferro sotto i sedili.
Nel piccolo anfratto tra un poggiatesta e l’altro, di fronte a me, intravidi il volto di una donna. La guardai per un attimo, non certo per una qualche morbosa curiosità, ma più che altro per l’inerzia e per la noia del viaggio di ritorno da Venezia, dopo una stancante giornata di studio. Poco dopo stavo già guardando le macchie di difficile classificazione sui sedili vuoti al mio fianco e la curiosa scritta sotto al finestrino lercio che, per mano di qualche anonimo passeggero, si era trasformata da pericoloso sporgersi in pericolo** **orge***.
Sorrisi piegando gli angoli della bocca all’insù, come mi avevano insegnato da piccolo, e sentii un piccolo clic dentro di me, appena dietro la nuca, come se qualche animale in agguato nel suo nascondiglio avesse catturato la preda che da tempo aspettava con pazienza. Sentii anche la pelle crespa di brivido, in allerta. Mi guardai intorno cercando qualcuno, qualcosa, e ritornai a guardare la donna nella fessura tra i sedili, questa volta con maggiore attenzione rispetto a prima. Di nuovo onde su tutta la superficie della pelle, come il cane della mia ragazza che, quando vede o solamente fiuta un altro maschio, increspa tutto il pelo sulla schiena in vista del pericolo. Allora compresi, leggendo i lineamenti di quel volto sconosciuto, cosa fosse a provocare in me quella spiacevole sensazione di disagio e stupore, quella stessa impressione di spaesamento che si prova cercando al buio un mobile in un posto, con la sicurezza derivante dall’abitudine di anni, dimenticandoci che lo abbiamo spostato il pomeriggio stesso in un’altra posizione della stessa stanza. Ecco: quella donna era fuori posto, nel tempo, pensai. Non avrebbe dovuto essere lì seduta tranquillamente a parlare con l’amica che le stava a fianco; non avrebbe potuto essere lì, perché era morta tempo fa e io lo sapevo che era già passato il suo tempo e che in quel momento, alle diciannove e venticinque dell’undici febbraio del duemilacinque, lei era totalmente fuori luogo, perché quella era mia zia, la sorella di mia madre, morta da più di dieci anni, per colpa di una cosa che da dentro l’aveva divorata fino a toglierle prima tutta la femminilità e poi la vita.
La somiglianza era impressionante: stesso taglio di capelli, le stesse rughe leggere che partivano dai bordi della bocca fino alle narici, la stessa sfumatura nel colore dell’iride, (spaventosamente) lo stesso modo di sorridere, il medesimo gusto nel truccarsi il viso, e poi la voce. Sembrava davvero mia zia e sembrava anche felice, come quei venerdì quando la sera ci portava, io e i miei fratelli, a mangiare la pizza con la Uno che aveva comprato da poco.
Così, quella sera in quel vagone, davanti a quella donna, non fui più sicuro che fosse l’undici febbraio del duemilacinque né, tanto meno, fui più sicuro di nient’altro da quel momento in poi.

Porta aperta



Un inedito della Scribacchina

Avrei voluto scrivere sulla febbre, un divertissement per misurarmi con Dostoevskj o piuttosto Baudelaire. E giravo per la casa, insonne, le labbra serrate, una mano sulle labbra; l’aspirina sommessamente bolleggiava in un bicchiere verde. Non le so contare le pecore, io. Adesso sono spaventate, perplesse da silenzi che via via s’ingrandiscono. Cercavo la musica necessaria, lo sfondo sul quale tessere il pensiero; il cuore gonfiava, messo nell’angoletto a frignare, a sommare i fatti, a tergiversare nella fisica quantica di un affetto finito… Le luci spente, una striscia di luna piena vera dalla finestra; fuori il gelo assoluto, la détresse. Lo spazio tra me e te si è trasformato, è solido, è un luogo di doppia meditazione, dove nessuno di noi può più dire altro. Le labbra serrate, una mano in gola. Dovevo uscire, o bruciare.

Ho delle pietre, in tasca al cappotto. Cosa sono se non metafora dei resti, del rimasto. In fondo, mi dico mentre scendo le scale, nulla è durevole; tutto raggiunge un culmine e poi cambia. E’ la vita. Strisce di luce colorata scappano dalle macchine e dai camion, fluttuano dai bar aperti. Una confusione che mi fa chiudere gli occhi. Tutto è spento sulla tangenziale, sull’autostrada, sulle consolari. Vai, Mozart: “Ah, soccorso…” Parto, ed è come togliersi un fiocco di polvere dalla spalla: è stringersi a sé, e sotto questo peso cinetico mi lavo dal rancore…

Perché ho camminato con te, dividendoci un trancio di pizza infinito di giorni e parole.
Ci vedevamo dalle punte delle ciglia, era vero sguardo, io ti sapevo.
E adesso hai scelto un altro ramo dello scambio, ti vedo andare, la tua motrice va sotto la pioggia.
Conserverò la scia.

La stessa te



Un inedito di Frieda

Ti vedo, osservo.
Ecco, apri la portiera, guardandoti attorno. Sali in macchina ma non parti.
Guardi fisso davanti a te un vuoto, mascherato da sopracciglia corrucciate.
Sbatti la mano sul volante; una seconda, una terza volta.
Accendi il motore, girandoti dopo aver ingranato la retro, il braccio destro attorno al sedile del passeggero.
Sento i nervi del tuo collo sussultare e scricchiolare di tensione per il movimento rapido della testa, che si volta nuovamente in avanti.
Qualche metro in retromarcia, molto lentamente; poi la prima e l’accelerata.
Sei agitata e non dissimuli. La perfetta mistificatrice che rincorri è rimasta appesa al giallo nicotina che sporca alcune dita.
Zelante neofita bagnata da acque profane e sconsacrate, individualista promiscua fino al limite più estremo del parossismo: galleggi, come olio nell’acqua, ostentando affettazione anche quando peli le patate, o ti infili le mutande.
Ora frughi nella borsa e nello specchietto retrovisore.
Solo un’occhiata fugace senza troppi ripensamenti, un’occhiata sbilanciata dalla parte opposta rispetto al riflesso del vetro.
Ti seguo, spio.
Dalla mia postazione distinguo ogni riflesso dei tuoi capelli, accesi e spenti dai fanali delle auto che ti sorpassano.
Accesi e spenti, accesi e spenti. Accesi e spenti.
Ricevi distintamente la mia presenza: il dono dell’ubiquità è all’occorrenza ingannevole.
Ti fermi, ed afferri con entrambe le mani lo specchietto retrovisore.
La condanna più gravosa che ti è stata inflitta è il talento nel non riuscire a vederci dentro quello che ci vedi.

Come profumo Iris



Un inedito della Scribacchina

Sotto le ruote del treno, pezzi di metallo senza sbavature, sento delle piccole batterie. Ci sono delle spazzole che marcano un ritmo orizzontale. Fuori, linee e linee in una prospettiva parallela; dove portano, non lo so. Nessun punto di fuga: è piuttosto l’arrivo lì lontano, che mi tenta. Ti scrivo questa lettera con frasi prese dai miei movimenti; in sottofondo, il giornale aperto, un lieve odor di umanità, trillare di telefoni, presenza di valigie e di corpi che mi disturbano nella loro materia. Il tuo sorriso un po’ arreso un po’ triste mi va dal ricordo alle mani, e lì sta come sapone, iridescente bolla che formo e riformo intorno a me. Quei tuoi gesti crostacei, che seducono insieme me come carnivora e me come venusiana; provo a scomporli in unità semplici, fino al puro rapporto umano non mediato dal rumore che fanno gli altri intorno a noi, con noi, prodotto delle loro operazioni matematiche in cui a volte siamo infinito e a volte zero. Scendo e mi fermo un secondo a guardare il travertino, una pagina bianca scritta e riscritta dal tempo e dalle attese, e so di aver scritto anch’io dei nomi, che poi ho lasciato cancellare e ricoprire nella cruda luce di tante mattine. Ho un momento di défaillance. A chi appartengo? La stazione è vuota. Tra i binari rotolano pezzi di carta, erbacce strappate. L’orologio imperioso fuoriesce dal mio maglione disegnando una sezione di arco fino ai miei occhi distratti: riflette il sole, per me. Ti lascio con un abbraccio immaginato, nuvola di calore che si disfa contro i pilastri, sulle panchine, e che non ritroverò più...

Leave



Un inedito di Me, Myself and Milano

Le persone fuggono, me ne rendo conto ogni volta che giro per le strade di Milano. La mia domanda è: da cosa?
Personalmente associo alla fuga un aspetto negativo, percui mi verrebbe automatico rispondere che scappino da qualche brutta situazione.
Fuga, fuga, fuga...cosa spinge le persone a scappare? La paura, ma di che cosa? Come? Quando? Perché?
E la faccia delle persone che fuggono com’è? per averne un’idea consiglierei a tutti di fare un giro sulla linea metropolitana verde, o MM2. Facce sbattute, nervosismo e tensione che si potrebbero tagliare con un coltello, rumore di piedi che si muovono aritmicamente, pure qualcuno che si rosicchia minuziosamente l’unghia del mignolo sinistro (è il primo che mi è venuto in mente :) )9. Poi caldo, un caldo torrido, causato non tanto dal numero di individui presenti sul vagone,, bensì dal brusio delle menti che se la viaggiano. Mi è capitato di vedere qualche cervello fumante ;)
Cosa ben più rara, invece, è trovare qualcuno che i suoi pensieri li esprima, e mentre la maggior parte dei viaggiatori deride tali individui, io provo una segretissima ammirazione nei loro confronti; per aver trovato il coraggio di stand up così apertamente al giudizio comune. Tutti ci ostiniamo a sostenere che viviamo per noi stessi, che pensiamo per noi stessi, bla bla bla...Se fosse veramente così cosa ci impedisce di uscire di casa in pigiama? Niente storie banali sul freddo polare degli ultimi giorni, grazie.
Esiste poi una vera opinione comune o è solo un frutto della nostra immaginazione collettiva e non? Ho come il timore che sia solo una tavoletta, e che in realtà funzioni così:
Io PENSO,
io PENSO che tu STAI PENSANDO,
io PENSO che tu STAI PENSANDO che tutti PENSINO etc...
E così via, fino a che non ci troviamo con un mucchio di pensieri corrotti e privi di fondamenta? Chi mi ricorda chi sosteneva che la mente umana è l’arma più pericolosa che esiste sulla faccia della terra?
Ed è qui che volevo arrivare. La gente (o se vogliamo restringere la cerchia ai milanesi) fugge più da se stessa che non una situazione reale. Scappa dai suo stream di pensieri, che a detta di G.C. Giacobbe sono la causa principale della nostra sofferenza. Abbiamo paura di soffrire?
Ricordiamo ovviamente che i pensieri non sono solo negativi, ma anche che quest’ ultimi non sono causa necessaria e sufficiente per affermare che siano i più pericolosi!
Io direi che è una teoria plausibile se la mettiamo in questi termini: a volte i nostri pensieri positivi sembrano talmente irreali e/o irraggiungibili che vogliamo cancellarli solo per non avere un continuo stimolo in quella certa direzione. Già, perché dove c’è gioia, c’è sofferenza, e come dicevo prima, noi abbiamo paura della sofferenza.
Ma poi, fuggiamo veramente solo dai nostri pensieri o anche quelli degli altri? Dicendo questo mi viene in mente il famoso “Speakers Corner” di Londra, dove ognuno è il benvenuto a dire la sua. Benvenuto, forse è un parolone...vi è mai capitato di passare di lì? Inoltre, avete mai notato come si comportano i passanti? Quanti si fermano ad ascoltare? Non dico “udire”, ma proprio ascoltare. Molti scuotono la testa e continuano a passeggiare.
Così la mia mente torna a rimuginare e si chiede: fuggiamo dai pensieri che non ci piacciono? da quelli che riteniamo assurdi?

Sapone d’Aleppo



Un inedito di Allure

Son utilisation est ancestrale. Son origine remonte à plus de 2 mille ans. Sa recette n'a guère changé depuis.
Un panetto ricevuto in dono da un amico, insieme a una tazzina da caffè e relativo piattino in porcellana bianca con decoro nero: cinque linee orizzontali parallele ed equidistanti. Un pentagramma.
Resta misterioso l’accostamento savon d’Alep e tazzina da caffè.
Come misteriosa rimane l’attrazione del panetto esercitatata su Fiamminga che con le zampe frugò attraverso le pieghe della leggera carta bianca che avvolgeva il panetto fino a saggiarne, con la sua ruvida lingua, sa composition: d'huile d'olive et d'huile de baie de laurier.
Quasi una piccola preziosa collezione é l’insieme di flaconi di varie dimensioni che poggia sulle mensole nella sala da bagno; schiume, ricevute in regalo, e altre provenienti da alberghi, i più disparati.
Flaconi chiusi, il loro contenuto colorato inconsumato.
Il piacere che si ricava dal contatto col panetto non conosce replicanti.
Passare la lingua sul sapone d’Aleppo, a imitazione di Fiamminga.